Renzi non convince: chiacchiere e bugie anche sul Jobs Act
La minoranza del Pd lo attacca duramente durante la direzione del partito. D'Alema: basta slogan, così risultati scarsissimi. Bersani: serve rispetto. Stop al metodo Boffo. Civati: mi sembrava di ascoltare Matteo Renzi chiede il voto alla direzione del Pd sul Jobs Act
Il look è quello pseudo-nuovo, camicia bianca, maniche arrotolate, rigorosamente senza cravatta e aperta fino al terzo bottone. Matteo Renzi, di fronte alla direzione del Pd, non sceglie l'attacco ma nemmeno la sostanza. Come sempre chiacchiere e distintivo dal premier che in 44 minuti di discorso, a tratti persino noioso e inutile, ha cercato di convincere la minoranza del suo partito a votare il suo Jobs act con l'abolizione dell'articolo 18. «Ho ascoltato il discorso di Renzi - ha scritto in un post su Fb il segretario della Lega Nord Matteo Salvini - 44 minuti. Tante parole, tante battute, tanta retorica, tanto niente. Mi sembrava di seguire una televendita di quadri su una tivù locale. Anzi no, le televendite di quadri sono più serie». Del resto il clima nella direzione è rovente. Nonostante i segnali di fumo solo apparentemente distensivi, né Massimo D'Alema, né Pippo Civati o Pierluigi Bersani - e in misura anche Gianni Cuperlo (per la verità l'unico che in qualche modo ha lanciato una ciambella di salvataggio al segretario) non gliel'hanno mandate certo a dire. A metà serata, infatti, con di fronte l'ipotesi di una chiusura anticipata della direzione la voce più insistente dava la via dell'astensione per la minoranza del Pd. Ad ascoltare D'alema o Civati però le asce da guerra sono tutt'altro che sotterrate. Arriva l'affondo di D'Alema: «In un paese civile dopo due anni che si è fatta una riforma - dice rivolgendosi a Renzi - prima si fa un monitoraggio degli esiti, e poi si pensa se è il caso di riformarla. E non si racconta che sta lì da 44 anni. Perché un po' di persone che sanno che non è vero esistono. E tu, Matteo, devi anche pensare a quelli che le cose le sanno. Non solo agli altri». Sembra quasi simpatico D'Alema (ed è tutto dire) di fronte alle inconsistenti chiacchiere di Renzi che ha cercato di polarizzare il discorso tutto intorno all'art 18. Come se il problema fosse tutto quello. E la sfida vera non fosse quella del lavoro, della lotta alla disoccupazione ma la sfida con i sindacati. Una strada che poteva funzionare qualche anno fa e in un altro contesto ma non certo in una direzione del Pd che sta cercando di risolvere non tanto il problema dell'art 18 quanto quello di avere un segretario sempre meno condiviso. Durissimo anche Civati che riferendosi alle recenti dichiarazioni del premier sul tema non ha avuto esitazioni a definirlo un uomo che porta avanti politiche di destra. Non ho la stessa leggerezza di Massimo D'Alema. Sono preoccupato. «Ieri sera in tv (domenica sera quando Renzi è stato ospite di Fazio, ndr), io ho visto un premier che diceva cose di destra, simili a quello che diceva la destra 10 anni fa». Insomma il messaggio che arriva dalla stessa minoranza a Renzi è: basta bugie, basta chiacchiere e distintivo. Se si continua così, ha detto D'Alema, i risultati sono scarsissimi: «Ho molti dubbi su una finanziaria fatta con molti spot, il rischio è che risultino inefficaci, personalmente avrei concentrato ogni sforzo sulla crescita». Renzi non convince nessuno chiedendo ancora e solo un pensiero unico sull'art 18. «Vi propongo di votare con chiarezza al termine» della direzione «un documento che segni il cammino del Pd sui temi del lavoro e ci consenta di superare alcuni tabù che ci hanno caratterizzato in questi anni» dice Renzi proprio alla direzione Pd, proponendo «profonda riorganizzazione del mercato del lavoro e anche del sistema del welfare». «Serve un paese che vuole investire e dare risposte ai nuovi deboli che sono tanti e hanno bisogno di risposte diverse da quelle date finora - continua Renzi - La rete di protezione si è rotta, non va eliminata ma ricucita, sapendo che c'è uno Stato amico che li aiuta. Siamo l'unico partito -prosegue - che discute al proprio interno con una certa animosità, ma questo non può fare venire meno il reciproco rispetto. Chi non la pensa come la segreteria non la pensa come i Flintstones. Chi la pensa come la segreteria non è emulo di Margaret Thatcher». Ascoltare proprio Renzi parlare di rispetto fa quasi venir da ridere. Il clima è tutt'altro che svelenito anche se l'assise si è aperta proprio con un'ora di ritardo per tentare di arrivare a una mediazione, come vorrebbe Cuperlo. E nel primo pomeriggio Renzi è salito anche al Colle, dal presidente Napolitano nel tentivo, forse, di verificare la sponda del Quirinale in questo braccio di ferro che sta dilaniando il Pd. «Le mediazioni vanno bene, il compromesso va bene - dice ancora Renzi - ma non si fanno a tutti i costi i compromessi. Non siamo un club di filosofi ma un partito politico che decide, certo discute e si divide ma all'esterno è tutto insieme. Questa è per me la ditta». Ma in sala si suona un'altra musica. E' durissimo anche Pierluigi Bersani: «C'ero io due anni fa con Fornero e Monti» sulla riforma dell'art.18, «è stato un passaggio complicato, può essere migliorato ma non mi si dica che è simbolico perchè riguarda concretamente 8 milioni di persone». Ma l'attacco più forte è diretto e personale al premier: il pericolo più forte, dice, è quello del "metodo Boffo", quello che ammazza la reputazione delle persone perché la pensano diversamente. Il riferimento allo stesso premier è evidente tanto che a difendere Renzi si solleva Matteo Orfini. Insomma è un tutti contro tutti. Ma se il Pd piange i sindacati non ridono: pure solo sono divisi e non sanno cosa fare: manifestazione unitaria o no in difesa dell'articolo 18. Da domani la battaglia si sposta in parlamento, al Senato dove si discute del Jobs Act.